SULL'IPOTESI DELLA TARANTELLA CALABRESE COME DANZA DI GUERRA

 

 

Noi tutti sappiamo, sia per averlo sperimentato direttamente che per averlo visto ed empaticamente vissuto, che la danza ha un significato, eminentemente liberatorio.

Questa attitudine liberatoria e tanto più forte e proficua di effetti liberanti quanto più è innestata sul ritmo.

Si dice infatti che il ritmo ha un'induzione quasi ipnotica.

Se questa induzione viene trasferita a più individui si viene a determinare una condizione di unisono.

In questa dimensione cadono le barriere erette a difesa da parte di ciascuno dei danzatori.

Essi non sono più attenti a se stessi: sono "trascinati" dal ritmo, si "abbandonano" a quella parte più recondita che più intensamente avverte la vibrazione..

Emerge così la spontaneità e con spontaneità appare, quasi piglia corpo, ciò che di più nascosto c'è in ogni modo.

Questo qualcosa è il nucleo della personalità, il temperamento.

Il modo di essere biologico di ciascuno, la propria costituzione, diventa nell'abbandonarsi al ritmo modalità patente delle capacità del danzatore.

Fino a questo punto si rimane nel generico: niente di nuovo è stato detto.

La novità sta invece nel particolare  modo con cui si articolano e si innestano certi rituali e sul come questi stessi servano non solo come forme di liberazione, ma anche come comunicazione codificata di proprie intenzioni quando la danza si effettua coinvolgendo due persone in presenza di altre che fanno cerchio ai danzatori.

Entriamo così direttamente in merito ai problemi che ineriscono al significato della tarantella calabrese.

Che significato aveva inizialmente la tarantella calabrese?

Da quali elementi è possibile trarre ingerenze sul suo linguaggio ritmico e gestuale?

Queste sono le domande fondamentali e necessarie per il costituirsi di una cornice definitoria dell'argomento trattato.

È mia convinzione che la tarantella sia una danza di guerra.

Anzi ritengo che avesse specificamente lo scopo di preparare alla contesa i danzatori.

In questa ottica era un necessario preludio al combattimento.

Molti potrebbero obiettare che spesso la tarantella vedeva come danzatori un uomo ed una donna.

Come può dunque conciliarsi la preparazione alla guerra con una serie di gesti e di componimenti ritmati che preludono ad un rapporto di amore?

Devo subito dire che l'obiezione dà conferma alla mia ipotesi.

Questa conferma si ritrova, rifacendosi sempre all'iniziale discorso sul significato del ritmo, nella necessità di recuperare l'unità dei sentimenti superando le inibizioni che la tradizione tribale ed i condizionamenti personali e culturali avevano determinato.

Era in altri termini una domanda a cui si dava una risposta culturalmente consentita.

Un consenso o un diniego non verbale ma piuttosto gestuale e composito, accettato da tutto, nel superamento corale del sentimento di ostilità, attraverso la partecipazione ritmica che accomunava i presenti e i danzatori e faceva nascere la benevolenza per una verità buona e bella.

La tarantella era quindi una presa di coscienza di sè in profondità, indispensabile per potersi poi produrre totalmente nell'accoglimento o nella ripulsa della richiesta dell'altro.

Era un dire si o no, una modalità che, liberando dal risentimento attraverso la spontaneità dell'azione ritmica, non offendesse alcuno e ritrovasse tutti nelle condizioni migliori per non sentirsi offesi, respinti o separati.

Dico separati non a caso.

Infatti nella società calabrese di cinquanta anni fa, con qualche eco anche oggi, il matrimonio di una figlia era una sistemazione della stessa ma comportava anche una separazione dolorosa dalla famiglia paterna.

Ritorna così in questo modello comportamentale il grande tema dell'aggressività da cui non sono disgiunti i tempi della morte e della guerra.

Perché, è necessario precisarlo, l'aggressività è collegata alla morte: essa è un derivato dell'istinto di morte.

La guerra poi non è che una soluzione proiettiva dell'aggressività.

È un trovare all'esterno, nell'altro o negli altri, l'oggetto di ostilità che, in ogni caso, si sarebbe potuta convertire contro se stesso.

Appare così più chiaramente come la guerra serva a salvaguardare la propria vita negando il desiderio inconscio di morte.

Un modo fra i più razionalizzati ed eleganti per stornare la disperazione è la rabbia che altrimenti condurrebbero al suicidio.

Ed è a questo punto che la danza, la tarantella calabrese cioè, ritorna come motivo attenuante, edulcorante, quasi lenitivo nei riguardi di sentimenti tanto distruttivi ed intensi.

La guerra, diciamolo subito e senza ambagi, esiste in ogni uomo.

E se un uomo decide di far guerra deve anche intensamente volerla vincere .

Se soltanto la desidera sarà un perdente e sarà meglio che non si metta ad intraprenderne alcuna.

Così il coraggio a cui tante volte e con tanta leggerezza si fa appello e una virtù estremamente totalizzante.

Esso coinvolge tutto l'essere dell'uomo volgendolo la dove maggiormente si appalesa la minaccia, l'insicurezza della vittoria, la possibile sconfitta e perdita di se.

Ora ritrovare il coraggio e ritrovare pure l'unità necessaria per l'azione.

Non certo un'azione a metà ma un'azione decisiva ed incisiva che ha come scopo la distruzione dell'avversario.

Al di fuori di queste premesse ogni vittoria è incerta.

Anche la cultura, nelle sue forme più elevate, ha un elemento agonale e la vittoria è possibile solo se colui che vince è un uomo che ha grande esperienza della vita che è in se.

Quando questa esperienza manca allora il combattente, l'intellettuale a cui si alludeva nell'esempio avanti riproposto, si identifica con le proprie idee.

Diventa così un fanatico che difende la personale illusione di onnipotenza.

Non ricorre ad alcuna forma di mediazione perché è carente di capacita rappresentative.

Voglio dire con questo che è incapace di attingere alla parte più profonda del suo essere attraverso l'arte che è eminentemente attività rappresentativa.

L'arte in quanto conoscenza immediata di sé ci fornisce la verità.

Una verità che è di colui che artisticamente la esprime ma anche di colui che ne fruisce.

Riferito alla tarantella questo discorso così si configura: la vita si afferma e si vive se è danzata. Perché vivere e attingere ai ritmi vitali più profondi?

Tanto più semplice, ritmica ed iterativa è la danza, tanto più forti sono le resistenze da superare per conseguire quella unità di sentimenti necessaria per la speranza nella vittoria.

Una speranza che per colui che la vive è certezza.

Dicendo queste cose si corre facilmente il rischio di essere frainteso.

Chi legge potrebbe dire che non è vero che l'intellettuale non riesce con il solo pensiero e con la sola ragione a pervenire alla verità.

Certo che l'intellettuale vi perviene!

Ma è anche vero che a questo fine la verità, viene raggiunta mediante un processo di svelamento che è un trarsi fuori dall'informe e dal non determinato .

Trarsi fuori non è un definirsi a partire da enunciazioni ma un riconoscersi nel proprio ritmo.

Più precisamente esprimersi col proprio temperamento, fare opera di poesia.

Si ritorna così alle sorgenti della vita, a quella scaturigine profonda, spesso dimenticata o negata, che è la realtà più vera di ogni uomo.

A che cosa dunque si giunge con la danza?

O, più limitatamente al nostro tema, quale funzione abreattiva dei sentimenti ha la tarantella calabrese?

Il fine della tarantella calabrese è innanzi tutto il conseguimento dell'unità: è raccoglimento, separazione e disponibilità per qualcosa e per qualcuno.

In altri termini è libertà dalla paura di sé che è timidezza.

La tarantella avrebbe così la funzione di produrre la disponibilità a combattere dopo aver accettato sé stesso col proprio limite.

Sembra un paradosso ma nessuna guerra vittoriosa è possibile se non c'è amore.

Amore è non avere odio, è liberarsi dall'odio.

La tarantella libera infatti dall'odio per rendere più efficace ed incisiva l'azione del combattere.

È la divisa del cavaliere antico o del samurai: combattere senza odio.

Il danzatore si liberava così dai sentimenti di colpa: non condannava sé stesso in ciò che approvava.

Non aveva dubbi ne ambivalenze di sentimenti.

Si liberava da ogni stupido intellettualismo, primo fra tutti quello che ha come elemento portante la compassione.

Anche questa considerazione può apparire disumana e, per certi versi lo è.

Infatti nessuno può liberarsi completamente dalla tendenza ad avere compassione perché non vi è uomo totalmente libero da narcisismo.

Infatti compassione e narcisismo vanno di pari passo.

Avere compassione e vedersi nello specchio dell'altro è commiserarsi.

L'autocommiserazione e il sottilissimo è dolce piacere che è alla radice dell'odio.

Si scopre così un altro elemento importante, oggigiorno esaltato, che impedisce all'uomo di essere veramente tale.

Questo elemento che confligge con il coraggio di vivere, che è accettazione della lotta, è l'umanitarismo inconsistente e filisteo.

I nostri progenitori avevano qualcosa che a noi oggi manca.

Questa qualcosa era la coscienza del proprio limite, della propria ostilità, della qualità del nemico.

Il nemico era stimato: era veramente un nemico.

Lo era perché dava un limite all 'antagonista.

Con questo limite lo onorava.

Lo onorava combattendo con tutto se stesso e, paradossalmente, lo amava.

Pertanto la tarantella calabrese modalità preparatoria alla lotta, serviva anche a scandire i ritmi delle scelte e dei rifiuti.

Il sottomettersi ed il contrapporsi erano adombrati in particolari passi di danza.

Sotto questa prospettiva il passo tipico è "u dormu" che consisteva nel girare intorno all'altro danzatore che, se accettava questo ritmo e questa sequenza imposta, tacitamente accoglieva il proponente come capo.

Questo passo di danza adombra il giro che fa l'uccello rapace intorno alla preda.

Lasciare che uno girasse attorno danzando corrispondeva per l'altro danzatore ad un consenso tacito di sudditanza.

Colui che girava era il fascinatore e quello che stava al centro e ne subiva il "fascino", l'affascinato, l'ipnotizzato o con espressione dialettale, "u 'nnopiatu".

Da qui il nome stesso del passo di danza che, per l'appunto, si chiamava "u dormu", l'addormentamento fascinatorio ed ipnotizzante.

Il capo era sempre uno "buono", un gran combattente, un uomo per nulla secondo all’antico cavaliere medievale o al samurai nipponico.

Questa qualifica non era dunque gratuita perché chi la riceveva era disposto ad accettare la lotta per la vita senza alcuna illusione.

Conosceva la sua umanità e quella degli altri.

Per questo era disposto a combattere: portava la pace con la spada.

C'è certamente una distanza abissale fra questo modo di vedere il mondo e quello che ci viene oggi ammannito dalle ideologie umanitaristiche nonché dai vari sincretismi ed irenismi.

Vivere autenticamente e portare la spada che è diverso dal portare la guerra.

Fare la guerra non è sempre un accettare la lotta per la vita.

Anzi, il più spesso, è un desiderio smisurato e dirompente di morte.

Accettare la vita nella sua accezione più vera è accettarla come lotta.

Una lotta cosciente, al di fuori di ogni contestualità ideologica che ne falsa i veri significati.

Lungi pertanto dal fare una critica intellettuale alle ideologie, la danza, la tarantella per la precisione, serviva come strumento di recupero della realtà umana.

Essa rappresentava la rottura col mondo falso dell'opinione imperante e della sequela faziosa ed introduce direttamente nell'ambito più vasto della coscienza di se.

Qualcuno diceva: "Italiani, vi esorto alle storie!" (mi pare fosse Guicciardini) .

A me verrebbe spontaneo volgere l'invito ai calabresi per una riscoperta amorevole delle nostre tradizioni.

Perché è nell'approfondimento dei significati di queste tradizioni che ci verrà offerta l'opportunità di un recupero di noi a noi stessi.

Esse sono il patrimonio culturale su cui meditare per trarre da esso, come uno scriba dalla sua bisaccia, "cose nuove e cose antiche".

 

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