Abitu non fa monacu e chirica non fa preveti

L'abito non fa il monaco e la tonsura non fa il prete

I segni esteriori, anche se simboli di virtù morali, non significano nulla se ad essi non s'accompagna la metanoia, cioè la trasformazione interiore. Così anche dopo indossato il saio e il cordiglio, il monaco può continuare ad essere il cattivo soggetto di prima; e lo stesso si dica del prete, nel quale la rasatura "del coperchio piloso del capo" non implica un mutamento di natura e di costumi. In questo caso egli diventa "previti di na mala previtera".

A carni supra all'ossu meri

La carne sull'osso dona, adorna

Il concetto di bellezza femminile tradizionale non è per il tipo asciutto e longilineo, venuto di moda dall'America nel secondo dopoguerra ed entrato nella scienza medica ufficiale sotto la pressione della propaganda assillante delle industrie di prodotti farmaceutici e dietetici. Secondo il concetto tradizionale calabrese, la donna bella deve essere anche robusta, con rotondità e prominenze femminli ben accentuate. Insomma il prototipo della vera bellezza resta quello matronale di Giunone, non l'aringa affumicata. Certi concetti estetici moderni, alimentati dalla propaganda interessata non concordano con la scienza e l'esperienza di sempre: la robustezza, la salute e il colore roseo della salute sono la base stessa della bellezza.

A cavaju hiestimatu nci luci u pilu

A cavallo disprezzato luccica il pelo

Ci sono individui, come ad esempio i bastardi, figli naturali, i figliastri, sui quali s'appunta l'antipatia del volgo o di certe persone che li disprezzano e bestemmiano. si tratta in genere di sentimenti irrazionali, dovuti a pregiudizi di varia natura. L'effetto del malvolere di molti, però, sortisce quasi sempre effetto contrario, perchè quanto maggiore è l'odio e il disprezzo di cui quegli individui son fatti segno, tanto più essi godono di buona salute e arride loro la fortuna. Spesso la Provvidenza e la natura, come nella fiaba di Cenerentola, fanno giustizia di torti immeritati.

A corda tantu si tira chi si ruppi

A forza di tirarla la corda si rompe

La sopportazione ha un limite e, quindi, non bisogna mai abusare della pazienza e remissività altrui. Prima o dopo capita a tutti d'avere a che fare con persone di carattere bisbetico, permaloso, incostante. Si mostrano risentite per una parola interpretata male di proposito; quando sono di umore allegro ridono, scherzano, giocherellano, si dimostrano espansive più di quanto dovrebbero; un minuto dopo cambiano e non rispondono nemmeno al saluto. La persona equilibrata e prudente cento o mille volte passa sopra alle bizze di costoro, che nei momenti neri assumono atteggiamenti offensivi, si lasciano sfuggire espressioni calunniose, diventano sgarbati e cafoneschi, inventano pretesti futili per mostrarsi offesi, si lamentano con altri di torti mai ricevuti. Ad un certo punto ci s'accorge che è preferibile rompere i rapporti con tali persone che indispongono, fanno perdere la calma e la tranquillità. Quando un rapporto è come una corda sottoposta a continui strappi e tensioni, è naturale che a un certo punto si debba rompere. Allora la persona equilibrata non perde nulla ma riacquista la pace interiore e lascia le piccinerie a chi è nato per esse.

Acqua passata non macina mulinu

l'acqua passata non fa macinare il mulino

Non vale riesumare certi ricordi non solo inutili, come in genere sono le cose passate, ma capaci di guastare il presente, in quanto potrebbero rinnovare dolori e riaccendere risentimenti e odi. Meglio è mettere una pietra sul passato, che in quanto tale, come l'acqua passata, non può avere alcun rapporto positivo con la vita attuale.

A capra si mungi e u zimbaru nguscija

La capra vien munta e il capro si lamenta

C'è modo e modo nel mungere e nell'esser munti, perchè altro proverbio afferma che "il piacere della capra è d'essere munta". Ammettiamo comunque che la mungitura avvenga ad opera di mani rozze e indelicate e riesca dolorosa alla povera capra; è paradossale allora sentire il capro lamentarsi, come se fosse esso ad essere munto. Eppure tutto questo capita tutti i giorni nella vita reale degli uomini: mentre c'è chi s'addossa le croci più pesanti e le trascina in silenzio, altri, poltrone e furbo, mentre forse egli stesso si fa trascinare da qualche povero cireneo, si lamenta come se ogni cosa gravasse sulle sue spalle.

A cu mi duna na guccia di mustu jo nciù rendu i vinu chjaru; a cu mi duna n'ura di disgustu nci'a rendu di chjantu amaru

A chi mi dona un sorso di mosto io glielo rendo di vino chiaro; a chi mi dà un'ora di fastidio io glielo rendo di pianto amaro

La quartina non è certo un proverbio, non avendone il tono e il significato sentenziosi. Esprime invece uno di quei sentimenti tipici del calabrese "che non si fa posare la mosca sul naso". Molto probabilmente la quartina era parte d'uno di quei canti popolari in ottava rima, esprimenti d'amore, sdegno, sfida o anche autoesaltazione, come in questo caso. I canti d'amore e di sdegno costituivano un aspetto vivo e tipico del costume e i giovani d'ambo i sessi se ne servivano effettivamente per una dichiarazione d'amore e per darvi una risposta positiva o negativa. Il canto di sdegno poteva servire come risposta ad una richiesta troppo ardita, quando una delle parti veniva meno alla fede promessa o comunque veniva reputata indegna d'essere amata.

Ad aprili jetta u mandali

Ad aprile getta via il manto

Al contrario il proverbio italiano dice: "Aprile, non ti scoprire". Occorre tener presente che l'Italia varia molto come clima, secondo la latitudine e l'altitudine. Nelle zone costiere e collinari della Calabria ad aprile di solito ci si può liberare del mantello e anche di qualche altro indumento.

A facci non guardata chijù di l'atri è disiata

Il viso che non s'è mai veduto è bramato più degli altri

La donna "finestrera" passa il tempo affacciata al balcone o sulla soglia di casa a petegolare con le vicine o a sospirare dietro ai giovani che passano e farsi notare da loro. Esporsi agli sguardi altrui significa pure sottrarre tempo prezioso ai lavori domestici e rischiare di perdere gradualmente il pudore. Par d'ascoltare i saggi avvertimenti materni della figlia: "Figlia mia, tu ti comporti così perchè temi di restare zitella sol perchè gli uomini non ti conoscono. Sappi che la virtù della donna è come il profumo nei fiori che basta ad attirare da solo api e farfalle. Gli uomini desiderano più intensamente la donna che immaginano adorna di virtù e chiusa nella torre d'avorio del pudore. Per vederla una volta di sfuggita son disposti a sopportare dei sacrifici. La stessa bellezza fisica passa in seconda linea di fronte agli elogi che uomini e donne tessono delle sue doti morali e dei suoi costumi irreprensibili. Con gli occhi dell'immaginazione gli uomini idealizzano la donna desiderata e la vedono infinitamente più bella ed attraente di quel che è nella realtà. Stà certa che, quando sarà giunto  il tuo giorno, verrà fuori l'uomo a te destinato che troverà la via giusta e onesta per arrivare a conoscerti. La donna "finestrera" non viene mai giudicata bene dagli uomini e se pure riesce ad irretire uno dei tanti passanti, si tratterà d'individuo di poco conto; invece quella che mena vita riservata a trascorrere il suo tempo rendendosi utile, appare davvero degna d'un principe azzurro". Il proverbio è uno splendido elogio del pudore ed è ricco d'intuito psicologico.

A fami caccia u lupu da tana

La fame spinge il lupo fuori dalla tana

Esce fuori dalla tana nelle notti fredde e tempestose ed erra per monti e valli ululando come un demente e sgozzando senza pietà pecore e agnelli innocenti. Non si cura delle zanne dei mastini e delle fucilate dei cacciatori. La fame, il bisogno, fu sempre "male e persuasore orribile di mali". A causa del bisogno l'uomo e la donna permettono ch'altri calpesti la loro dignità e rinunziano alla virtù, al decoro, al pudore. La fame umilia, avvilisce, toglie forza e coraggio, fa rinunziare ai principi, leva il fiume della ragione. Essa spinge alla violenza, al furto, alla rapina. Dominato dall'istinto primordiale della sopravvivenza, l'uomo sente rivivere in sè la bestia e diventa lupo per l'altro uomo. Pure all'opposto della fame che imbestialisce, c'è la sazietà che chiude in una torre d'egoismo e di superbia, d'arroganza e sopraffazione. Nella sua preghiera   il cristiano, dopo aver chiesto il pane quotidiano, dovrebbe implorare d'essere liberato dalla sazietà, strumento di cui si serve il maligno per rendere più disumani dello stesso bisogno.

A fimmana di razza a cinquanta teni 'n brazza

La donna di razza a cinquant'anni tiene tra le braccia

Essere pienamente donna a cinquant'anni e allattare il bambinello da poco partorito, che forse non sarà l'ultimo, non è del tipo fragile, dai fianchi mascolini, dai malleoli di cerva, dal petto tirato con l'ascia, dal viso simile a "lumera stutata" cioè a lucerna spenta. Il trucco più copioso non basta a nascondere la decadenza precoce. Solo la donna forte, la classica donna di pura razza contadina, non alta e slanciata ma dai fianchi possenti e dai seni sempre turgidi e floridi, a cinquant'anni allatta e prolunga la sua giovinezza feconda e con la sua prolificità riesce a colmare i vuoti che spesso le epidemie aprono tra i bambini. Dapprima sola, poi aiutata dalla prima figlia appena cresciuta, cura la casa, il marito, la prole; provvede all'allevamento dei polli, della capra, del maiale; è felice di correre in campagna e ritornare con sulla testa un grosso canestro colmo di frutti, ortaggi, verdure; dirige i lavori della vendemmia, della semina, dei raccolti; cura la canapa dalla semina fino alla sua sistemazione nel telaio e, trasformata in tela, le conferisce candore e bellezza con il ranno e il sole. Questa donna di razza, della pura e sublime razza calabrese, forte di muscoli, paziente alla fatica, più forte e ricca di spiritualità, ormai non è che un ricordo. Era davvero così fino a pochi decenni orsono e sembrava uscita di recente dalla costola d'Adamo, ad opera del Creatore.

A fimmana mpasta e mpasta, u furnu conza e guasta

La donna impasta e reimpasta, il forno aggiusta e guasta

L'operazione più difficile per una buona panificazione non era di lavorare più o menoi a lungo, di rendere più molle o più dura la pasta nella madia; qualsiasi donna sapeva far questo. Ma dare la giusta temperatura al forno, riscaldare al punto voluto la base e il cielo del forno, usando ora legna dal fuoco robusto e forte e ora "Bampugghj" cioè trucioli o fogliame dalla fiammata effimera, era compito delle massaie veramente esperte. Esse erano in grado di calcolare il calore assorbito dal forno, fregando la punta del Sirti (una pertica) sulla pietra di prova posta in un angolo del forno; se il calore assorbito risultava eccessivo, lo temperavano inzuppando maggiormente d'acqua il "Càpju" grosso straccio legato a un'asta, che si ripassava sul piano del forno per ripulirlo dai residui della brace e della cenere.

 

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